Ca’ del Duca 3052, Corte del Duca Sforza
San Marco, 30124, Venezia, Italy
Tue – Sat 10am – 6pm
Milano, Viale Campania 33. Un civico che potrebbe sfuggire a un passante distratto, un portone come tanti — eppure, appena oltre la soglia, tutto cambia. Lo spazio si apre come una casa, non come una galleria: l’aria è calma, la luce è calda, i materiali vibrano. Non c’è fretta, né bianco assoluto. È un luogo che ti accoglie, ti fa sedere, ti invita a respirare.
È qui che prende vita Spazio MU.RO, nuova sede milanese della Collezione MU.RO, progetto fondato da Elisabetta Roncati e Andrea Musto, coppia nella vita e nell’arte, che hanno scelto di trasformare la passione per il collezionismo in una forma di relazione e di ricerca.
“L’idea nasce dall’unione delle nostre due collezioni e dalla volontà di creare un approdo comune, un luogo che fosse sì la casa delle nostre opere, ma anche un punto di dialogo tra culture, linguaggi e generazioni” racconta Elisabetta Roncati, con la naturalezza di chi ha fatto della contaminazione una filosofia di vita.
Nata e cresciuta in una famiglia di antiquari, Roncati porta con sé la memoria di un’arte antica, fatta di tempo e di storie. Andrea Musto, invece, arriva da un collezionismo più contemporaneo, inquieto, aperto al linguaggio del corpo e dell’identità. L’incontro tra i due mondi dà vita a uno spazio che sfugge alle definizioni: non una galleria commerciale, non un’istituzione, ma una casa viva del pensiero visivo.
Nella lounge di apertura, la Collezione MU.RO accoglie il visitatore con un mosaico di nomi e tempi: Franco Mazzucchelli, Fausta Squadriti, Ruben Montini, Carlo Senfedaque, Vittorio Valiante, Erika Conte. Le opere dialogano tra loro in una rotazione fluida, come un preludio, un prologo alla mostra inaugurale che abita le sale interne.
Il viaggio comincia con Mascherada, la mostra che segna l’apertura ufficiale dello spazio. Realizzata in collaborazione con AKKA Project, galleria con sedi a Venezia e Dubai tra le più autorevoli nel panorama dell’arte africana contemporanea, Mascherada intreccia le storie di due rive — l’Africa e l’Europa — in una trama di memorie e metamorfosi.
Il titolo, tratto dal dialetto veneziano, significa “festa in maschera”, ma in questo contesto la maschera è tutto fuorché un travestimento. È rito, è simbolo, è corpo collettivo. Come spiega Roncati, “La maschera non nasconde, rivela. È una soglia tra il visibile e l’invisibile, tra l’individuo e la comunità. È un volto che porta dentro secoli di identità e di memoria”.
La mostra si apre con Reinata Sadimba (Cabo Delgado, Mozambico, 1945), figura leggendaria dell’arte africana. Le sue sculture in terracotta, di dimensioni contenute ma di forza immensa, raccontano una biografia dolorosa e sacra: madre di sette figli, sei dei quali persi prematuramente, Reinata ha trasformato la creta in un linguaggio intimo di elaborazione e rinascita.
I suoi volti portano le scarificazioni tradizionali maconde, quelle che segnano il suo stesso volto, come un filo invisibile tra corpo e spirito. Nelle sue mani, la ceramica — da mestiere domestico — diventa atto politico, gesto spirituale, forma di emancipazione.
In dialogo con lei, Filipe Branquinho (Mozambico, 1977) porta la fotografia nel territorio della maschera. La serie Bestiarium (2020) abbandona il registro documentario per abbracciare un linguaggio simbolico e perturbante. Le figure mascherate di Branquinho non sono personaggi, ma stati d’animo. Tra luce e ombra, tra gesto e immobilità, incarnano la bestialità dell’umano, la tensione tra istinto e ragione. Le sue immagini — dense, teatrali, quasi scultoree — rimandano al rituale maconde e al legame invisibile tra identità e metamorfosi.
Gonçalo Mabunda (Maputo, 1975) è il terzo capitolo del racconto. Le sue sculture realizzate con armi dismesse della guerra civile mozambicana sono icone della trasformazione. Pistole, proiettili, baionette: oggetti di morte che nelle sue mani si fanno troni, maschere, totem di potere e resistenza. Mabunda non scolpisce: riassembla, ricuce, riscrive. In lui l’arte è atto politico e catartico, è la possibilità di riscattare la materia dal suo passato.
Da Maputo ci si sposta idealmente a Nairobi, dove Teddy Mitchener (Stati Uniti/Kenya, 1972) costruisce una nuova geografia della memoria con Disappearing Africa. Le sue fotografie, saturate di colore e profondamente narrative, nascono da un’urgenza: salvare la tradizione delle maschere africane che le nuove generazioni stanno dimenticando. Mitchener digitalizza, archivia, trasforma: la tecnologia diventa strumento di sopravvivenza culturale. Le sue immagini — sospese tra il rituale e il virtuale — sembrano voler dire che anche l’archivio può essere una forma d’amore.
Infine, Kelechi Charles Nwaneri (Nigeria, 1994), voce della generazione Z africana, apre una prospettiva nuova. Nei suoi lavori, il corpo diventa territorio di sovrapposizioni: il trucco, la luce dei social, la posa contemporanea convivono con i simboli della cultura Igbo e con la tradizione delle pitture corporee. Le cicatrici diventano segni di potere, le maschere si fondono ai volti reali. La sua è un’estetica ibrida e vibrante, che non teme la contaminazione ma la rivendica come identità.
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